Venezia, aprile 1992
Franco Batacchi
La pittura come un mare, la tela come un approdo (partenza o arrivo, ormeggio sciolto o attracco sicuro?), i segni come rotte tracciate su esotiche carte nautiche, i colori come rosa dei venti indispensabile alla navigazione. Le opere di Franca Faccin risvegliano la mia voglia di mare, di cieli grandi, di libertà. Mi piace la sua aggressione gestuale e immagino le vaste superfici che s’ingarbugliano di freschi neri nervosi, si disorientano nell’opinabile definizione del senso di lettura definitivo, mordono infine il fondale del significato nelle ancore cromatiche dei primari. Blu, rosso, il prediletto cromo. Come Mondrian, come Malevitch, ma senza calcolo apparente, né alchimia, né puntigliosa ricerca d’auree sezioni. Biciclette, gru, giri di freni, variopinti mercati o volo d’uccello, la spiaggia contrappuntata dagli spicchi di un ombrellone: pretesti per risolvere il test d’autoanalisi che quotidianamente l’artista affronta con odio-amore. Il canto del colore nella luce richiama, alle prime, un’eco amatissima, ma qui non v’è traccia di edonistico compiacimento; semmai, affiora la trama di strutture più complesse. Sfoglia vecchi cataloghi, trovo un Paul Klee del 1914 fitto di ruote e pulegge (Abstrakte Apparat fur Statik) e le composizioni astratte a tre colori di Le Corbusier (anni 60), m’illudo di seminare boe luminose e di scandagliare relitti su derive in pericolo, ma subito mi accorgo che la navicella di Franca Faccin non teme l’insidia della notte e l’agguato della secca infida; balza agile sull’onda dell’invenzione formale, piroetta capovolta e ricade indenne, viaggia con il salvacondotto della poesia. L’artista ha cancellato, con un bianco apparente, denso di fremiti e umori, ogni riferimento costiero superfluo e fuorviante. Rimane a rallegrarci, il lampeggiatore sereno e perentorio di una pittura forte e gentile.