Enzo di Martino
In questa prospettiva le immagini archetipe di ispirazione fantastica di Franca Faccin dichiarano esplicitamente una sorta di “debito formale” verso la grande lezione di Osvaldo Licini verso il quale lei stessa dichiara di essere stata “travolta da un immediato”, confermando però, proprio per tale ragione, in questo rispecchiamento, di appartenere pienamente al suo tempo, cioè alla contemporaneità. Una ricerca espressiva siffatta comporta ovviamente rischi di “riconoscibilità” che la Faccin assume consapevolmente perché sa bene che in definitiva “l’arte nasce dalla storia dell’arte”.
È del resto proprio la storia dell’arte di questo secolo a testimoniare nel suo svolgersi molte posizioni consimili, tese alla conquista di “parziali verità” sulle quali costruire, nella dispersione di mille direzioni, una sorta di personale probabilità esistenziale ed espressiva.
Talvolta tali posizioni assumono la connotazione della cifra riconoscibile, altre volte paiono tese ad una partita interna a se stesse e rimangono nascoste nel personale sogno poetico dell’artista.
Franca Faccin pare appartenere con tutta evidenza alla seconda categoria, impegnata com’è da anni a comporre un originale canto poetico, silenzioso ed isolato, volto a comunicare sul piano della emotività piuttosto che a descrivere o narrare alcunché.
A parte il riferimento formale già citato, la sua ricerca viene dunque difficilmente omologata in una “gabbia critica” – anche per un certo suo disinibito nomadismo espressivo – rischia pertanto di non essere registrata nella disattenzione caratterizzante del nostro tempo.
Agli inizi degli anni sessanta l’interesse di Franca Faccin era ancora rivolto alla figura ed ha realizzato per tale via numerosi ritratti di notevole intensità psicologica, dipinti nei modi formali che solo approssimativamente potrebbero essere definiti espressionisti.
L’artista ha proseguito a lungo per tale percorso giungendo però, negli anni Ottanta, ad una sorta di “de-significazione” delle apparenze, perché i suoi “mangiatori di anguria”, solo per fare un esempio, risultano a ben vedere alquanto distanti da qualsiasi intenzione descrittiva.
È cioè evidente che la Faccin comincia allora ad avvertire nuove esigenze espressive che sarebbero poi state giocate sostanzialmente sul piano del puro e semplice linguaggio della pittura.
Si tratta di un processo di maturazione nel corso del quale l’artista avverte che il suo mondo interiore non può più essere manifestato affidandolo semplicemente al “visibile e riconoscibile” ma richiede invece un affidamento ideativo e riflessivo, oltre che linguistico, in grado di fare affiorare pienamente i moti interiori di una sensibilità segreta che spinge per emergere e fa i conti solo con se stessa.
Appaiono così quelli che possono essere definiti i “pretesti visivi” – le biciclette, a volte rovesciate, ed i particolari come le ruote o le volute dei freni – che evidentemente assumono nella fantasia dell’artista la sua funzione di mettere in moto gli stimoli di una pittura sostanzialmente formale, che tende ad autogiustificarsi. Operando su di un terreno siffatto Franca Faccin mette in atto una sorta di “oscillazioni espressiva” che la conduce a volte a “riconoscere” l’oggetto dipinto, a nominarlo, altre volte la spinge invece verso derive più decisamente ai confini dell’astrazione.
La prima “bicicletta” appare nel suo mondo ideativo sul finire degli anni Ottanta ed è subito evidente che l’artista coglie di quell’elemento concreto – e tuttavia trapassabile dalla luce – soltanto le forme che assumono nello spazio connotazioni trasfigurate e per certi versi perfino informali.
L’immagine rimane tuttavia sorretta da una sorta di geometria segreta che certamente è “liciniana”, cioè rigorosa e libera allo stesso tempo.
Qualcosa del genere avviene peraltro anche nel ciclo delle “marine” dei primi anni novanta, sulle quali Faccin inserisce a volte anche le forme che si riferiscono in precedenza alle biciclette, testimoniando così l’assoluta indipendenza della descrittività dei “pretesti immaginativi” che infatti coesistono anche nell’improbabilità. Questa sorta di “disinvoltura” nell’appropriarsi delle immagini nella sua fantasia ha condotto Franca Faccin verso molti approdi “figurativi” di volta in volta esplorati in periodici cicli di dipinti, come nel caso dei “riquadri”, delle “forme”, delle “isole” e, infine, della “scrittura o degli ideogrammi”.
Nella loro apparente “illeggibilità” essi assumono la dimensione della metafora ed esprimono in definitiva, nel complesso, l’interiorità più autentica e profonda dell’artista.
Franca Faccin certamente non ignora l’insegnamento che ammonisce “la geometria come madre di tutte le forme” ma il suo percorso sembra procedere in senso inverso e potrebbe dirsi “dall’informale all’ordine” euclideo. Nel suo lavoro le forme vivono infatti in uno spazio artificiale, psicologico, mentale si potrebbe dire, acquisendo per tale via valenze che risultano puramente fantastiche.
La suggestione informale ha certamente avuto un peso nel suo “combattimento per l’immagine” e l’eco di certe lezioni – penso in particolare ad Afro e ad un certo Santomaso – è certamente presente in certi momenti della ricerca di Franca Faccin. Ciò che distingue sempre il suo lavoro, tuttavia, al di la di quella sorta di “drammatica gioiosità” dai colori acidi, è soprattutto quella miracolosa capacita di “rimescolare le carte” nell’operazione.
Lo spazio assume infatti nei suoi dipinti la dimensione di un luogo di accadimenti emozionali, una superficie che vale, che conta, e va “comunque” occupata con i segni ed i segnali della sua immaginazione, del suo passaggio esistenziale.
Questi si dispongono sulla tela o sulla carta secondo un ordine segreto che non intende strutturare l’immagine ma conferire invece ordine ad una espressività altrimenti “irresponsabile”.
Questo fenomeno è avvertibile chiaramente in particolare nei cicli delle “forme” e delle “isole” della metà degli anni Novanta. Qui l’immagine risulta infatti come sfibrata, cercata ansiosamente in un processo di sfaldamento e ricomposizione unitaria che si serve a questo scopo di un segno solo apparentemente incerto, in realta deciso e determinato.
Lo spazio dei dipinti della Faccin appare dunque un luogo nel quale convivono gli impulsi emotivi e il rigore della geometria in un precario e tuttavia affermato equilibrio formale che assume infine una dimensione armonica di cui non si da conto. La luce – in assenza della quale non esistonole forme – ha un rilievo particolare in questa sua visione spaziale che risulta infine preminentemente lirica.
È infatti attraverso di essa – la luce – che viene annullata e trasfigurata la fisicità della materia pittorica che assume cosi una valenza “altra”, interiore si potrebbe dire, e prima di allora inesistente.
La verità è che Franca Faccin organizza espressivamente lo spazio in maniera tale da mostrare la stessa struttura della pittura e dunque i “conflitti” che essa sopporta nella sua apparizione.
ll segno di cui si serve contorna a volte i campi di colore ed altre volte si dipana apparentemente senza logica alla ricerca delle forme.
Si tratta di un segno mai descrittivo o narrativo che, almeno nei lavori più “liciniani”, appare invece soltanto “delimitativo”, come nel caso di Triangolo rosso o Composizione, entrambi lavori del 1996, per fare due esempi.
La tessitura di queste superfici accoglie con urgenza espressiva sia i segni che i colori, perché entrambi concorrono alla manifestazione di immagini che sembrano provenire da un mondo interiore, anche se prendono a pretesto concreti elementi oggettuali o di natura. È infatti evidente che i colori di Franca Faccin dichiarano in definitiva una valenza “antinaturale” e il suo giallo non è poi quello dei limoni, il rosso non è quello del sole, né l’azzurro è quello del mare.
ll conflitto natura-antinatura è un aspetto tra i più caratterizzanti l’opera di Franca Faccin, un conflitto dal quale risulta assai difficile risalire al “pretesto visivo” che ha determinato l’immagine.
Da questo punto di vista le sue opere dichiarano una sorta di “illeggibilità” e reclamano invece il suo diritto alla contemplazione.
Ecco perché esse risultano infine “opere aperte” nelle quali cioè ciascun riguardante ha la possibilità di rispecchiarsi e riconoscersi, secondo un suo personale codice di valori.
Franca Faccin mette dunque in atto, attraverso il linguaggio della pittura, anche un’operazione di seduzione perché sa bene che, nella comunicazione di qualsiasi genere, occorre superare la “distanza tra chi parla e chi ascolta”.
Il rapporto emotivo che per cosi stabiliamo esiste allora con la sola opera, l’opera d’arte chiusa in se stessa, muta ed indifferente alle domande, posta in una condizione che richiede agli spettatori semplicemente l’abbandono. È infatti per tale via che essa rivela a ciascuno di noi l’invisibile che è dentro i nostri occhi, l’indicibile che è dentro la nostra mente, il possibile che è nella nostra fantasia.
Venezia, febbraio 1999