Riapro gli occhi al giallo ora vivissimo, ora tutto screziato fermentante. Ecco il contrappunto del rosso che s’insinua come una lingua di fuoco. Un lampo di blu irrompe da una parte, secco e assoluto, come un folletto, gli risponde un verde che sa di erba e di vita. È una pittura che colpisce subito per la sua fresca irruenza. La vedo snodarsi attraverso il ritmo, ormai classico, delle biciclette e dei giri di freni; poi avvitarsi nelle rotelle e nei terminali di gru che s’impennano; oppure scattare nelle eliche di aeroplani che girano all’impazzata; magari per placarsi (ma è pur sempre un forte abbaglio visivo) nell’altalena di luci dei mercati colti dall’altro… resto quasi inebriato. Sento che l’immagine ha una tensione tutta sua: un brio che nasce sì dall’istinto, ma anche da una percezione serrata della macchina, e si estende dallo sguardo ai gangli organico-cellulari più profondi. Insomma, una struttura vitale.
Franca Faccin è fatta così. Ricordo ancora i suoi quadri di alcuni anni orsono: i secchi, le sedie, soprattutto i mangiatori di angurie, naturalmente le prime biciclette. È sempre stata una pittrice di gesto: tutta estri e scatti. È riuscita a raggiungere una sua dimensione stilistica senza sforzo. È piaciuto fin dall’inizio quel suo costruire l’immagine dal bianco assoluto, con poche pennellate che andavano via via saldandosi dall’apparente svagatezza in un congegno organico: con colori scelti con sicurezza perentoria, e certe alternanze, così sentimentalmente scoperte, tra stesure piatte e trepidi sussurri di luce, tra segni duri e capricciose volute… il successo delle biciclette è stato sì improvviso (e superiore ad ogni attesa) ma preparato con un tirocinio tenace, persin ossessivo. Son piaciuti i giri di freni, tesi ad un rigore di puri ritmi grafici ma nel contempo densi di un’energia compressa che tendeva a dilatarsi, ad esplodere nello spazio. Come dire? S’è riconosciuta a Franca Faccin una sua prepotente personalità. Ora il discorso continua. Continua attraverso variazioni sul motivo, tutte simili eppur tutte diverse. Il passaggio della bicicletta alla gru è stato del tutto conseguente. Le rotelle, le carrucole, le aste, i vari congegni, le travature, i cavi tesi, l’argano di sollevamento: tutto obbedisce ad un macchinismo ribaltato, che ormai ha perduto la sua funzione (e quasi la sua riconoscibilità) per diventare puro vettore dinamico. È avvenuto lo stesso travisamento fantastico delle biciclette. Magari è cresciuto il quoziente dinamico-strutturale: c’è eccitazione continua, che si traduce nel segno come nel colore. Anzi, il colore s’è fatto più mosso, più libero, pur conservando le curiose alternanze di zone piatte e zone trasparenti. Il ritmo è sempre a chiasmi, a incastri, a trapezi, con rotelle a spirale da cui si dipartono linee di forza che solcano i vasti prati di colore. Insomma, è la macchina inventata.
Una mano nervosa ci guida nell’avventura della fantasia, fino ad inoltrarsi nel giuoco folle (e pur così ben strutturato) dei mercati punteggiati di triangoli e di volute, oppure a farci salire sul più pazzo degli aeroplani, alla conquista di uno spazio che sa di aria, di vento, di luce.
È un processo che mi affascina: lo smontaggio e la ricostruzione dell’immagine. La pittura ci mostra proprio la fase di transazione, il momento cioè dell’instabilità (formale, e psicologica). Tutto gioca ancora una volta sul bipolarismo: dalle curve sinusoidali alle rette spezzate, dal colore morbido alle violenze timbriche, dalle stesure ferme a quelle fortemente mosse. Già l’altra volta l’ho sottolineato: è una sorta di interazione tra l’apollineo e il dionisiaco. Gli estremi si toccano: scatta quasi una scintilla. Oggi è di moda, soprattutto in architettura, un termine: decostruzione. Si tratta appunto di una metodologia di smembrare la struttura e di rimetterla in ciclo con combinazioni e angolazioni diverse. Ma la Faccin non la attua a freddo, bensì con la vivacità di un polso dinamico che nasce da una motilità che è indubbiamente psicologica. Di qui il rifiuto di ogni formalismo, come di ogni ragionata astrazione. Semmai, il fascino è proprio quello del limite: di questo sporgersi vertiginosamente sul ciglio dell’abisso. Lì, in quella instabilità, Franca Faccin smonta e ricostruisce le sue biciclette e le sue gru, i suoi aeroplani e i suoi mercati. E a noi piace affrontare gli occhi in questo puzzle per scoprire la chiave interna, “quell’ordine disordinato” che si cela dentro la frenesia del segno e l’estemporaneità del colore.