Ho visto la prima volta quadri di Franca Faccin, ormai molti anni fa e mi sono sbalordito della loro freschezza e attualità. Mi ero sempre proposto di saperne di più finché ho conosciuto Franca a Ca’ Lozzio. Di lì naturalmente è nata una visita al suo studio. E lo sbalordimento di tanti anni prima è diventata la sicurezza sensazionale di trovarmi in presenza di una pittrice molto più complessa di quanto potessi pensare. Le sue tematiche sono essenziali e il procedimento di realizzazione è quanto mai articolato. I freni di biciclette, le spiagge e gru che sono sue proprietà della memoria, si articolano su grandi spazi con disinvoltura e sicuro senso dell’immagine, il suo interesse per Klee e Licini sono evidenti, ma rinnovano da una gestualità fantasiosa in cui il ricordo dei due maestri rimane poco più che un riferimento di partenza culturale. La sua monocromia in realtà non si sente. Basta un rosso e un blu all’interno delle sue modulazioni di giallo a dar la sensazione di una pittura molto colorata direi quasi allegra. La sua gestualità non è un programmato automatismo, ma un invito amichevole a entrare nel suo quadro, e dove dire che nonostante le punte delle gru, i tralicci acuminati e le pericolose curve di freni, nei suoi quadri ci sta bene. Mi ricordo di un vecchio maestro che mi portava a vedere i musei. Diceva a proposito di un quadro dell’Ottocento che rappresentava uno squero con una grande barca puntellata: “Se tu pensi di poter star seduto bene all’ombra di quella barca, vuol dire che il quadro è riuscito”. Questa sensazione dell’entrare nel quadro come fosse uno spazio vivibile, me le son portate dentro per tutta la vita e come primo impatto di giudizio ha sempre funzionato. Credo che gli spazi di Franca siano accoglienti e problematici nello stesso tempo. Che insomma ci si possa sedere a pensare.
Valeriano, 1994